Pagina:AA.VV. - Commedie del Cinquecento, Vol. II, Laterza, 1912.djvu/207

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atto quinto 195


Cesare. I’ ti prego che lo facci in ogni modo e di buona sorte: perché io son ridotto a termine ch’io non posso piú vivere, s’io non ottengo questo desiderio.

Erminio. Non piú: vatti con Dio. T’imprometto d’averne parlato innanzi le ventiquattro ore.

Cesare. Adesso debbono essere ventitré o piú.

Erminio. Io t’atterrò la promessa.

Cesare. Mi ti raccomando. Addio.

Erminio. Forse che io non dissi a mona Pasqua che tornassi presto e ch’io non gne ne messi in fretta? Oh! Gran cosa, la indiscrezione de’ servidori! Ei mi viene, certe volte, voglia di far ogni cosa da me. A bada di questa... presso ch’i’ non dissi, io sto in un tormento grandissimo. Ma è meglio ch’io m’avvii in lá per riscontrarla. E ecco uno che esce di chiesa.

SCENA V

Erminio e Marcantonio.

Marcantonio. E’ mi par mille anni di trovar Erminio.

Erminio. E’ mi pare e non mi pare mio padre.

Marcantonio. Io non so s’io me li dico prima che la cosa sia acconcia o che l’abbi partorito.

Erminio. Egli è desso. Che domine ha e’ fatto lá?

Marcantonio. Dove lo tro verrò io adesso?

Erminio. Vogl’intendere che cosa sia questa.

Marcantonio. Vo’ veder se ei fuss’in casa.

Erminio. Dio vi dia la buona sera.

Marcantonio. Oh Erminio! Io ti cercavo e ho da darti bone nuove.

Erminio. Dio el volesse!

Marcantonio. E forse migliori che tu potessi avere, se poco fa mi dicesti el vero.

Erminio. Che ha avuto licenzia Fiammetta d’uscire del monasterio?

Marcantonio. Meglio assai.