Pagina:Alfieri - Rime scelte, Sansoni, 1912.djvu/50

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22 rime varie


Dolce testor degli amorosi detti?1
Qui il gran poeta, che in sí forti rime
4Scolpí d’inferno i pianti maladetti?
Qui il celeste inventor, ch’ebbe dall’ime
Valli nostre i pianeti a noi soggetti?
E qui il sovrano pensator, ch’esprime
8Sí ben del prence i dolorosi effetti?2
Qui nacquer, quando non venía proscritto
Il dir, leggere, udir, scriver, pensare;
11Cose, ch’or tutte appongonsi a delitto.
Non v’era scuola allor del rio tremare;
Né si vedeva a libro d’oro3 inscritto
14Uom, per saper gli altrui pensier spïare.4


XXV [xlii].5

La morte di Alessandro il Macedone.

Quel già sí fero fiammeggiante sguardo
Del Macedone invitto emul di Marte,6
Pregno il veggio di morte: è vana ogni arte,
4Ogni rimedio al crudel morbo è tardo.


    chiavelli, si era fatta maestra al mondo di luce intellettuale e di civiltà. Pur troppo il gesuitismo imperante vi tarpava le ali agli ingegni e lo spionaggio v’era ricompensato con titoli di nobiltà».

  1. 2. Il «dolce testor [tessitore] degli amorosi detti» è il Petrarca, e il verso gli appartiene (Rime, XXVI), secondo varii, con allusione al Boccaccio.
  2. 7-8. Non è chi non veda stretta analogia fra il concetto espresso in questi versi dall’A. e quello contenuto ne’ Sepolcri del Foscolo:
    Io, quando il monumento
    Vidi ove posa il corpo di quel grande
    Che temprando lo scettro a’ regnatori
    Gli allor ne sfronda ed alle genti svela
    Di che lagrime grondi e di che sangue...
  3. 13. Il libro d’oro, è quello ove sono inscritte le famiglie patrizie.
  4. 14. Verso disarmonico per la sovrabbondanza degli e e dei p, e per quella rima saper-pensier.
  5. Il presente sonetto, incominciato il 9 luglio 1778 e ripreso molto piú tardi, perché accanto alla seconda quartina si legge nel ms.: «29 maggio 1786», è, come la tragedia Timoleone, frutto della lettura di Plutarco a cui l’A. si diè, per la seconda volta, con grande ardore, verso il 1780: ecco in qual modo il biografo greco narra la morte di Alessandro: «Convitato avendo una volta splendidamente Nearco, ed ivi lavato essendosi, come solea, nel mentre ch’era per andarsene a riposarsi, venne Medio a pregarlo di voler portarsi appo lui, ed egli vi si portò; ed avendo ivi bevuto tutto il dí seguente, cominciò a venirgli la febbre, non già bevuta la tazza di Ercole, né sorpreso tutt’ad un tratto da un dolore di schiena, quasi trapassato fosse da un’asta, pensato avendo alcuni di dover cosí scrivere per formare un fine tragico e assai doloroso di una grande rappresentazione. Ma Aristobulo narra che la febbre il traeva a delirare, e che sentendosi egli grandemente assetato, bevve dei vino e che divenuto quindi frenetico, morí il trentesimo giorno del mese di Desio» (Trad. di Gerol. Pompei, VI, 377).
  6. 2. Perifrasi che richiama i versi fatti incidere dagli Ateniesi a piè della statua di Demostene, che il Pompei tradusse cosí (V, 182):
    Se, o Demostene, in te la forza al senno
    Era egual, non avrebbe unqua su’ Greci
    Il Macedone Marte avuto impero.