Pagina:Annalena Bilsini, di Grazia Deledda, Milano, 1927.djvu/16

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ci si doveva fermare: passavano carri carichi di mele, che spandevano un forte profumo di frutteti; passavano carri di uva, di saggina, di vimini; calessini coi sensali smilzi dai lunghi baffi rossi a punta, di ritorno dai mercati; automobili con dentro semi-sdraiati grassi mercanti di maiali. Si sentiva, con quell’odore di frutta, di mosto, di erbe forti e di giunchi, l’odore stesso della pingue valle coltivata fino all’esasperazione, della terra davvero impregnata del sudore dell’uomo e che produce quindi con abbondanza divina.

I Bilsini, che per quell’anno possedevano a mala pena le sementi, il frumentone per sfamarsi ed una scarsa provvista di vino e di salumi, guardavano come veicoli sacri i carri carichi di derrate, e calcolavano il prezzo di ogni cosa, ma senza parlarne.

Ne parlavano invece la madre e lo zio, nel biroccino di famiglia che ricordava i viaggi fortunosi degli antenati mercanti e produttori: nelle soste forzate la donna però non sdegnava di guardare intorno l’ampio paesaggio fluviale e di lasciarsi prendere da un istinto nostalgico di ricordi e di rimpianti. Su quel ponte, su quello stesso biroccino leggero e stretto come un sedile a due, ella era passata tante volte, da ra-