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fra venezia e ravenna 13

fieramente gli contrastarono il passo che, disperando ormai di potere entrare in Italia, apparecchiavasi Carlo a proporre non so quali condizioni di pace, quando quel Leone arcivescovo di Ravenna, del quale abbiamo parlato di sopra, risaputa la cosa non si sa come ne dove, gli mandò un suo diacono per nome Martino, il quale mostrò una via per lo gole indifese di Giaveuo intorno al monte Picheriano. Così i Franchi poterono entrare nei piani di Torino e presero alle spallo i Longobardi in quei campi che per la grande uccisione che allora fu fatta, anche al dì d’oggi sono detti di Mortara.

Ora il leggere nelle lettere di papa Adriano che Leone diceva avergli Carlo concedute le città della Pentapoli, il vedere Leone andare in Francia, e tornato perseverare nelle antiche pretese adducendo le medesime ragioni, mi fa credere che veramente stretto fra i pericoli, Carlo avesse fatte all’arcivescovo ravennate concessioni o promesse che poi non trovò forse modo di riconoscere e mantenere. E mi conferma in questa opinione il vedere quel diacono Martino ch’era stato guida all’esercito di Carlo, essere poi fatto arcivescovo di Ravenna, ed appena eletto mandare in Francia un’ambasceria, della quale non apparisce altro fine che quello di fare omaggio all’imperatore che memore del salutare consiglio di Martino la accoglie con ogni benevolenza. Morto Carlomagno, Martino è chiamato a Roma. Quetamente sì parte da Ravenna, ma venutogli poi il sospetto che qualche gran pericolo non gli sovrastasse a Roma, si ferma dopo quindici miglia di viaggio, fingendosi malato così da non poter cavalcare.

Tanto narra l’Agnello, il quale aggiunge che questo Martino era tanto grande della persona che nella mano sinistra teneva duecento soldi d’oro.

Tali memorie congiungono l’istoria di Ravenna alle imprese di Carlomagno1, il quale nominando nel suo

  1. Vedi l’Agnello sulla venuta di Carlomagno in Ravenna, nella vita dell’arcivescovo Grazioso di cui ricorda la semplicità.