Pagina:Ariosto-Op.minori.2-(1857).djvu/17

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atto primo. — sc. i, ii. 7

gio? Che vuol1 che v’indugiate a sua posta fino a sera? Ancor non viene? Per dio, che s’io ritorno indietro!... Andate tutti, e strascinatemelo fôra per li capelli. Non vaglion le parole con questo asino, nè vuol, se non per forza di bastone, obbedir mai. Vedi che io t’ho fatto escire.

Nebbia.     Sia in mal’ora: non si poteva senza me finir la festa. Io so bene ch’importa l’andata, ma non posso più.

Erofilo.     Andátevene, nè sia alcun di voi sì ardito, che prima che egli vi dia licenzia mi venga innanzi. M’avete inteso?


SCENA II.

GIANDA, NEBBIA servi.


Gianda.     È pur grande, o Nebbia, cotesta pazzia, che tu solo di tutti noi conservi vogli contrastare sempre con Erofilo. E pur ti devresti accorgere come fin qui t’abbia giovato! Obbedisci, col malanno, o mal o ben che ti comandi: è figliuol del patrone un tratto2; ed ha, secondo la età, più lungamente a comandarci che il vecchio. Perchè vuoi tu restare in casa quando lui vuol che tu n’eschi?

Nebbia.     Se tu in mio loco fussi, così faresti, e forse peggio.

Gianda.     Potrebbe essere, ma non lo credo già; chè non so vedere che ti giovi troppo.

Nebbia.     Io non debbo fare altramente.

Gianda.     E perchè?

Nebbia.     Se mi ascolti, io tel dirò.

Gianda.     T’ascolto, di’.

Nebbia.     Conosci tu questo ruffiano che da un mese in qua è venuto in questa vicinanza?

Gianda.     Conoscolo.

Nebbia.     Credo che tu gli abbia veduto un pajo di bellissime giovani in casa.

Gianda.     L’ho vedute.

Nebbia.     Dell’una d’esse Erofilo nostro è sì invaghito, che per avere da comprarla vendería sè stesso; e ’l ruffiano, che


  1. Scriviamo questo che, senza alcun segno appresso, come nelle antiche edizioni, qualunque sia l’espressione che qui possa attribuirsegli. Il Barotti ed altri moderni ponevano: Che? vuol ec.
  2. Un tratto, come si disse ancora Una volta (frequentissimo nel Machiavelli), per Finalmente, In somma, In conclusione.