Pagina:Arrighi - La scapigliatura e il 6 febbrajo, Milano, Redaelli, 1862.djvu/217

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Giunto all’osteria della Foppa, Emilio diè intorno la solita occhiata scrutatrice, ed entrò poco dopo che Lisandro era andato insegnando a Fanfirla il modo di farsi voler bene dalla Pendolina.

Mascherato com’era, nessuno lo avrebbe riconosciuto; fattosi perciò daccanto a Lisandro, e datogli del gomito nel braccio, gli chiese sottovoce dove fosse lo Spadon dei dodici.

Lisandro, dopo aver ravvisato Emilio, gli mostrò coll’indice il popolano che dirigeva il coro. E, come in quel punto la melodia era in pieno corso, così il Digliani per aspettare che terminasse, comandò del vino, e stette a riguardare la partita di morra.

Cessato il canto, Emilio si levò; lasciò che Paolino volgesse gli occhi nei suoi; gli fe’ un quasi impercettibile segno di testa, e s’avviò fuori dell’osteria. Lo Spadon dei dodici — bizzarra metafora di S. Paolo — gli andò dietro.

Costui, giovine nei ventiquattr’anni, piccolo, tarchiato, macilento, era appunto uno di quegli astuti furfanti che usufruttuavano la cospirazione pei loro fini tutt’altro che onesti. Che mestiere facesse egli, sarebbe difficile il dirlo. A chi gli aveva mosso questa domanda coll’autorità di un giudice criminale, aveva risposto: venditore girovago. Il suo commercio variava colle stagioni: d’estate vendeva sorbettini e cocomeri a taglio; d’inverno selvaggina e tartufi, col qual pretesto aveva campo di mettersi in contatto col bel mondo negli alberghi e nei caffè.