Pagina:Büchler - La colonia italiana in Abissinia, Trieste, Balestra, 1876.pdf/32

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Quella scena ci metteva ribrezzo. Spianammo i fucili e ne ammazzammo alcuni. Altro di notevole non incontrammo sino al nostro arrivo alla sponda di un fiume asciutto, che serpeggiava in una piccola oasi, ricca d’ombre benigne per grande numero di adansonie, alberi grossissimi ed altissimi, sopra i quali costumano piantare il nido avoltoi ed altri rapaci. Ci sdraiammo per ristorare le forze e per rinfrescarci. Non andò molto però, che un distinto calpestio venne a turbare la nostra quiete.

Era un drappelle di soldati negri, del Cordofan, guidati da un capitano vecchio, e malato, che dirigevasi alla nostra volta.

I servi indigeni che avevamo con noi, rimasero sbigottiti; ciò che non era punto di lieto augurio per noi. Essi ci fecero noto, che avremmo forse dovuto perdere i nostri camelli, imperciocchè coloro scorrazzavano in quelle regioni allo scopo di fornire di tali animali il governo di Khartun, cui abbisognavano pel trasporto di pali telegrafici.

Le povere bestie, soccombevano per le enormi fatiche, e venivano abbandonate lungo la via, ove gli avoltoi le divoravano. Di ciò dava ragione la scena degli scheletri disseminati, che ci si era parata innanzi nell’ultima marcia.

I soldati s’erano avvicinati dirigendoci il saluto alla mussulmana e, sedendo a modo degli arabi, c’interrogarono di dove venivamo, ove andassimo ed a chi appartenessero i camelli.

Il tiro era stato ben diretto; ma il sig. Stella fu sollecito a rispondere che quei camelli erano nostra proprietà assoluta: averli noi acquistati legalmente a Suakin e dover servirci ai nostri usi speciali e personali.