Pagina:Büchler - La colonia italiana in Abissinia, Trieste, Balestra, 1876.pdf/31

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D’altra parte Colombo erasi imbattuto in un più grosso animale: il suo fucile aveva sparato contro una iena di straordinaria grandezza. I ruggiti della fiera ci annunziavano ch’era stata ferita; ma non ci fu dato vederla a motivo della precipitosa sua fuga, benchè le urla, che di tratto in tratto riudivansi, ce ne potessero approssimativamente indicare la direzione.

Usciti dalla foresta, sboccammo in una pianura, non tanto amena, nella quale sostammo, accampando finchè fu notte, ed ove scaricammo i camelli, secondo il consueto. Si apprestò un buon fuoco, e Glaudios, che, quant’era cattivo compagno tant’era cuoco eccellente, si diede alle operazioni della cucina, mentre io e Colombo eravamo andati a far legna nella testè abbandonata foresta. Ritornammo con grandi fascine e qualche grosso ramo, disponendo in qua e in là i fuochi di sicurezza per tener lontane le fiere, siccome facevasi in tutte quelle notti in cui si riposava.

Dopo la cena, a fornirci la quale era stata sì gentile la gallinaccia ch’io avevo cacciata, presi alcune sorsate di the, e accesi la mia solita pipa, sdraiandomi sopra la branda, conversando cogli altri ed intuonando di tratto in tratto qualche patrio stornello per rompere la monotonia dei discorsi.

La notte passò tranquilla. Di buon mattino allestimmo le some, festeggiati da quella specie di belato che mandano i camelli allorchè vengono caricati: concerto curiosissimo e d’un effetto più strano che disgustoso. Preso un po’ di cognak, ripigliammo il cammino lungo un tratto di deserto, seminato qua e là di scheletri di camelli, cui visitavano grosse torme di uccelli di rapina. Da una di quelle carogne, alcune aquile e parecchi avoltoi strappavano sproporzionati bocconi.