Pagina:Büchler - La colonia italiana in Abissinia, Trieste, Balestra, 1876.pdf/38

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Allora mi chiamai felice, soddisfatto di aver preso parte a quella spedizione. Un bell’orizzonte balenava al mio pensiero, e già sul volto sereno dei miei compagni io leggeva la medesima sensazione. Pronosticava da ciò un lieto avvenire, nè mai in quel giorno avrei potuto supporre che la nostra situazione si sarebbe in breve mutata, e che i nostri progetti avrebbero dovuto fatalmente svanire.

Il signor Panajoti, che ebbe per fatalità a morire pochi giorni dopo il nostro arrivo, ci mosse incontro e ci ricevette in un vasto cortile, seguito da tutti i suoi servi e dagli schiavi. L’accoglienza fu veramente cordiale. I nostri camelli vennero scaricati e noi fummo invitati a prender riposo sopra alcune brande, approfittando dell’ombra che gettavano le mura del cortile in mezzo al quale sorgeva una piccola abitazione. Era questa una specie di magazzino in cui stava raccolta la famiglia Casanova industriante in animali selvaggi.

Dopo che ebbimo preso un conveniente riposo, sempre presente il sig. Panajoti, giunsero altri servi che ci invitarono ad entrare in un piccolo gabinetto addobbato nel più perfetto gusto orientale.

Colà fummo serviti d’un lauto pranzo in cui abbondavano i latticini, e si ebbe copia di dolci e di vivande preparate con certe frutta a noi sconosciute, e proprie della mensa degli Arabi.

Mentre eravamo tranquillamente seduti ad asciolvere, udimmo un forte schiammazzo che partiva dal cortile ed era prodotto dalle entusiastiche acclamazioni degl’indigeni, che suonavano certe trombe di legno assai lunghe e poco ritorte, a somiglianza di quelle usate in Europa nell’evo medio. La maggior parte degl’intervenuti a quella affettuosa dimostrazione erano vecchi