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sul vertice del monte nero 191


incosciente della caduta. Tutte le nostre paure nascono in fondo dal pensiero subitaneo, involontario, preciso, della catastrofe. Non è l’abisso che ci spaventa, è la sensazione di piombarvi. E l’atto spontaneo di portare le mani agli occhi è per comprimere e schiacciare appena nata la visione del nostro corpo precipitante con veemenza, agitato da divincolamenti convulsi che lasciano in solchi strani nella neve la scìa della nostra disperazione, la traccia solenne della nostra agonia. Si pensa che altri sono caduti così negli stessi luoghi, che basterebbe un attimo di sperdimento perchè la orrenda visione si avveri, che essa è forse la realtà ineluttabile del prossimo istante, e tutto ad un tratto l’angoscia ci invade.

La nevosa Sella Kozliak, dalla quale eravamo partiti, si era sprofondata a poco a poco, e sembrava assai più vicina al fondo della valle che a noi. Non ancora raggiunta dal sole, tutta velata da quell’ombra glauca delle grandi altitudini nella quale si raccoglie come un odore di serenità, essa appariva diafana, incorporea, simile ad un’onda. Spire sottili di fumo celestino salivano nella quiete dell’aria dai rifugi dove avevamo passato la notte. Quell’angolo ospitale del monte, nel quale ci aveva accolti la calda cordialità che lega gli uomini nelle solitudini, come lega la corda che fa un essere solo di tutta una squadra fra i pericoli delle scalate più ardite, ci pareva ora familiare,