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SOPRA DANTE | 27 |
essi non conoscono le cose presenti: e messer Farinata gli risponde,
Noi veggiam, come quei c’ha mala luce,
Le cose, disse, che ne son lontano;
suole questo vizio avvenire agli uomini quando vengono invecchiando, per omori i quali vengon dal cerebro; ed essendo nell’occhio, per la vicinanza loro alla virtù visiva, alquanto l’occupano intorno alla vista delle cose propinque: ma come la virtù visiva si stende più avanti, e lontanasi dall’adombrazion dell’omore, tanto men mal vede, e con più sincerità riceve le forme obiette: così adunque i dannati offuscati dalla propinquità della caligine infernale, non posson le cose propinque vedere; ma ficcando con la meditazione l’acume dell’intelletto per le cose superiori, veggion le più lontane: e come queste possan vedere o nò, quello che per Tullio se ne tiene è dimostrato nel precedente canto, dove l’autore induce Ciacco a predire quello che esser deve della città partita: e seguita, Cotanto, quanto odi, ancor ne splende, cioè presta di luce, il sommo duce, cioè Iddio, senza la grazia del quale alcuna cosa non si può fare: Quando s’appressan, le cose future, n’è del tutto vano Nostro intelletto, in quanto niuna cosa ne conosciamo: e s’altri, o demonio o anima che tra noi discenda, non ci apporta, vegnendo dell’altra vita, e di quella ci dica novelle,
Nulla sapem di vostro stato umano,
cioè di cosa che lassù si faccia. Però comprender puoi, da ciò ch’io ti dico, che tutta morta,