Pagina:Boccaccio - Ninfale fiesolano di Giovanni Boccaccio ridotto a vera lezione, 1834.djvu/111

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parte quinta 105

XXXIII.

Oimè, dolente, che vuo’ tu più fare,
     Mensola disse, o che altro diletto
     Puo’ tu di me sventurata pigliare,
     Che t’abbi preso? e però, giovinetto,
     Ti prego ch’oramai ne deggi andare,
     Ed io mi rimarrò com’io t’ho detto:
     Tu vedi che del giorno ormai c’è poco,

     E potremmo esser giunti in questo loco.

XXXIV.

Tu sai ben che ’l diletto ch’io ho avuto,
     Di te infino a qui, chent’egli è stato,
     E quel che tra noi due è addivenuto,
     E con quanto dolor s’è mescolato,
     Che ’n verità poco piacer m’è suto;
     Ma or ch’ognun di noi è consolato,
     Sarà ’l nostro diletto assai maggiore,

     E più compiuto e con maggior dolciore.

XXXV.

Deh non volere, o giovane piacente,
     Che sopra ’l mal c’ho fatto i’ faccia peggio:
     Che se io fossi di ciò consenziente
     Grave pena n’avrei, e chiaro il veggio,
     Se mai Dïana ne saprà niente;
     Però di grazia questo don ti cheggio
     Che ti piaccia partir, come che a me
     Non sia forse minor doglia che a te.