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diare un poco la storia nostra d’Italia, di cui aveva una leggera tinta, per difetto, credo, di libri acconci, il formarmi uno stile, se non elegante, almeno non troppo dimesso e trascurato, e finalmente coordinare una congerie enorme di note, di pensieri, di sistemi; in una materia quasi nuova, non per lo scopo, ma per le forme pratiche ed attuabili che intendeva di darle. Io voleva scrivere per gli uomini di Stato e non per gli accademici.

«Volea penetrare nella mente di Carlo Alberto ed esercitarvi una specie di pressioue, onde svolgere in lui quei sentimenti italiani e liberali che io presentiva latenti. Si vedrà come, in parte, venni a capo del mio pensiero.

«Colla mia valigia piena zeppa di manoscritti, di memorie e leggerissima di denaro, mi avviai in febbrajo del 1845 a Parigi. La mia fortuna personale era tutta perduta nella Spagna; perfino qualche capitaletto raggranellato a stento sui miei crediti col governo, sciupavasi da certi faccendieri industriali che vennero in Ispagna a sfruttarsi la credulità pubblica e le economie di noi poveri militari. Mi era rimasta una pensione del Portogallo di franchi 1500, un altro migliajo del retaggio paterno; e così doveva vivere in Parigi con grande parsimonia.

«Ritrovai in Francia il dottore Anfossi, che più non aveva veduto dal 1831; il Zaccheroni, che da Marsiglia sfrattato con me, s’era ricoverato a Parigi; conobbi Gioberti, Massari, Ferrari; ma il circolo delle mie relazioni era ristrettissimo; v’erano pure gli emigrati spagnuoli che avevano seguito Espartero, e con essi alcuni miei vecchi amici. Passai la vita studiando, riformando, correggendo; in luglio del 1846 pubblicai il mio libro; potei, a dura pena, trovare uno stampatore anticipando danari; e mi ricordo che dovetti in quel tempo impegnare tutte le mie decorazioni di Spagna e Portogallo onde ritrarne una somma per le prime spese.

«Per dir vero, sembrava troppo lusingarmi che uno scritto, il quale recisamente, senza frasi, senza anfibologia, annunziava un compiuto sistema politico-mi-