Pagina:Callimaco Anacreonte Saffo Teocrito Mosco Bione, Milano, Niccolò Bettoni, 1827.djvu/117

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di teocrito 107

Ne’ baci vani. Tu vuoi far, che in pezzi
Tantosto i’ metta la ghirlanda d’ellera
Che a te, cara Amarilli, intesta serbo
Di bei bocciuoli, e d’odorifer appio.
Ahi! di me, che sarà? di me tapino?
Nè tu m’ascolti? Or la pelliccia svesto
Per fare un salto in mezzo là a quell’onde,
Ov’Olpi pescator fa guardia a’ tonni.
Bench’io non vi morissi, il tuo piacere
Pur sarìa fatto. Io me n’avvidi allora,
Che, cercando se m’ami, non fe’ scoppio
La foglia del papavero schiacciata,
Ma sul morbido gomito appassita
Invan restommi. Il ver mi disse ancora
Agreon, che indovina col crivello,
Lei, che a mercede un dì l’erba cogliea,
Ch’io dietro a te mi perdo, e tu mi sprezzi.
Una candida capra affè ti serbo
Madre di due gemelli, ch’Eritàce,
Quella brunetta di Mernone figlia,
Chiede, e l’avrà, s’io ti son gioco e scherno.
Battemi l’occhio destro. E che? vedrolla?
Qui canterò poggiato al pin. Fors’anco
Verrà a veder, chè alfin non è un diamante.
Ippomene allorchè la Vergin volle
Sposar, co’ pomi in man fornì suo corso.
Come il vide Atalanta, come in furia
Levossi, come in cupo amor s’immerse!
Dall’Otri a Pilo l’indovin Melampo
Guidò l’armento, e sua mercè la madre
Vezzosa della saggia Alfesibea
Fu di Biante infra le braccia accolta.
Adone ancor, che pecore pascea
Su le montagne, a tal furor non trasse
La bella Citerea, che neppur morto
Dal petto sel diparte? Ah! per me certo