Pagina:Callimaco Anacreonte Saffo Teocrito Mosco Bione, Milano, Niccolò Bettoni, 1827.djvu/187

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     La cima della man. Ferito ei lascia
     Il ferro, e a tutta fuga il passo affretta
     Ver la tomba del padre, ov’Ida il forte
     A mirar siede la civil tenzone.
     Ma Castore gli è sopra, e ben addentro
     Tra l’umbilico e il fianco il largo ferro
     Gl’immerge, e in sen le viscere gli squarcia.
     Linceo boccone in terra giacque, e grave
     Sonno gli corse giù per le palpebre.
     Ma nè pur l’altro de’ suoi figli vide
     Laocoossa fra i paterni Lari
     Le disiate nozze a fin condurre.
     Perocch’Ida Messenio un colonnello,
     Che dalla tomba d’Afareo sporgea,
     Divelto immantinente, all’uccisore
     Del suo germano era a vibrarlo intento.
     Ma Giove lo soccorse, e all’altro scosse
     Di man l’inciso marmo, e incenerillo
     Con infocato stral. Non è liev’opra
     Il pugnar co’ Tindaridi. Son essi
     Per sè possenti, e d’un possente nati.
Addio, figli di Leda. Agl’inni miei
     Per voi si rechi onor eterno e fama.
     Tutti i vati a’ Tindaridi son cari,
     A Elèna e agli altri Eroi, ond’Ilio cadde,
     Quando recaro aita a Menelao.
     A voi, regnanti, il gran cantor di Chio
     Sovrana laude meditò cantando
     Di Priamo la città, le navi Achee,
     Le Iliache pugne, e Achille torre in guerra.
     Io pure a voi delle canore Muse
     I doni, quali son da lor concessi,
     E quali tengo in mio poter, presento.
     Il miglior don, che a’ Numi s’offra, è il canto.