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dei dotti 119


E questa è per me percezione: tutto ciò ch’è profondo deve levarsi alla mia altezza!».

Così parlò Zarathustra.




Dei dotti.

«Mentre io giaceva addormentato, una pecora brucò le foglie della ghirlanda d’edera che adornava il mio capo: ne mangiò, e disse: «Zarathustra non è più un dotto».

Disse; e se n’andò grave e superba. Lo seppi poi da un bambino.

Io amo giacere nei luoghi dove giocano i bambini, vicino al muro diroccato, sotto i cardi, fra i rossi fiori del papavero.

Per i bambini io sono ancora un dotto, e così per i cardi e per i fiori del papavero. Essi sono innocenti, anche nella loro malizia.

Ma per le pecore io più non risplendo: così vuole la mia sorte: — sia benedetta!

Giacché questa è la verità: ho abbandonata la casa dei dotti e ne ho chiusa la porta dietro di me.

Troppo a lungo la mia anima sedette affamata alla loro mensa; non avvezzo come essi a romper le noci.

Io amo la libertà e la brezza che soffia su la terra fresca; amo meglio dormire su le pelli che sui loro onori e su ciò ch’essi tengono in pregio.

Io sono fatto troppo ardente dai miei pensieri: sì che talvolta mi par che mi manchi il respiro. E allora sento bisogno dell’aria libera, e fuggo dalle stanze che hanno odor di rinchiuso.

Essi siedono freschi all’ombra fresca: d’ogni cosa non vogliono essere che spettatori: si guardan bene dal seder sui gradini fatti roventi dal sole.

Simili a coloro che se ne stanno su la via e guardano oziosi la gente che passa, tali si soffermano anch’essi in attesa d’idee pensate da altri.