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furono preceduti da un’epoca simile, illustrata dal trionfo e poi dalla caduta di parte ghibellina, e da alcuni grandi uomini chiari per valore e per consiglio, Farinata, Cavalcante Cavalcanti, Jacopo Rusticucci, il Tegghiajo e altri. L’impressione che questi grandi nomi, vivi ancora nella tradizione, produssero sopra Dante, si scorge fin da’ primordii del suo poema. A’ primi passi che fa nell’inferno, incontratosi in un uomo insignificante, in Ciacco, qual è la prima domanda che fa? Di aver notizie di costoro, di sapere ove sono...

                                    Farinata e il Tegghiajo, che fur sí degni,
Iacopo Rusticucci, Arrigo e il Mosca,
E gli altri, che a ben far poser gl’ingegni,
     Dimmi, ove sono, e fa che io li conosca.
                         

Il primo di questa lista ed il più grande è Farinata, e Farinata è il primo nel quale c’incontriamo.

Chi legge la storia di Farinata e di que’ tempi, non si può difendere da un senso quasi di terrore; e innanzi a tanta violenza di passioni e perseveranza di odii gli parrá che quegli uomini vestiti di ferro fossero poco meno che belve. Ma la storia scritta a questo modo è una vera mutilazione, come quella che rappresenta un lato solo della vita. Se dalla piazza spingiamo l’occhio tra le pareti domestiche e nelle radunanze private, troveremo i Federichi, gli Enzi, i Manfredi, i Latini, i Cavalcanti, cosí ardenti nelle pubbliche lotte, disputare pacificamente di filosofia e tener corti d’amore e scriver sonetti e ballate certo rozze ancora, ma che pur rivelano un cuore schietto e gentile. In uno di questi convegni pacifici delle Muse, dove si disputava, si poetava, si scioglievano enimmi, si proponevano quistioni, fu letto un sonetto anonimo, indirizzato a’ quattro piú chiari poeti del tempo: Guido Guinicelli, Guido Cavalcanti, Dante da Majano e Cino da Pistoja. Il sonetto non usciva dal convenzionale, ovvero dal senso allegorico allora in voga, e conteneva un sogno enigmatico, del quale si chiedeva la spiegazione.