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V.


Quando Pretu rientrò il padrone rileggeva ancora le letterine misteriose, ma per non farsi scorgere dal servetto lo chiuse fra le pagine del libriccino e si mise a leggere i salmi.

Qualcosa d’insolito rendeva meno triste la stamberga. L’odore dei canditi che usciva dalla cassa, l’alito primaverile che entrava dalla porticina, scacciavano il tanfo dell’umido e della miseria. Il malato, la cui testa delicata aveva sul candore delle foderette inviate dalla misteriosa donatrice un’aria quasi angelica, cominciò a leggere a voce alta i versetti del suo libriccino.

«Non lasciar l’anima tua in preda alla tristezza e non opprimere te stesso coi tuoi pensieri.

«Abbi compassione dell’anima tua, per piacere a Dio, e manda lungi da te la tristezza. Perocchè dessa ne ha uccisi molti e non è buona a nulla, e la letizia allunga i giorni dell’uomo».

Con l’arancia dentro la berretta che gli scivolava dalla testa, Pretu intanto preparava la cena e chiacchierava.

— La Pasqua dunque è passata, sia lodato Dio. A mia madre han regalato una coscia di capra; voleva darmene da portar qui, ma io le dissi: noi non vogliamo nulla da nessuno! Sì, zia Giuseppa Fiore ha ammazzato una vacca, per dar la carne ai poveri; però il filetto e le parti migliori se le li è tenute lei, che una palla le trapassi il garetto! A mia madre, poi, mio padre ha regalato cinque arance; ma aveva, una sbornia, una sbornia come non s’è visto mai. Egli