Pagina:Deledda - Colombi e sparvieri, Milano, 1912.djvu/265

Da Wikisource.

— 255 —


— E quel terreno lì di chi è? E a chi è affittato?

Il nonno, il cui vecchio cavallo aveva anch’esso la velleità di sorpassare i compagni, si metteva la mano sull’orecchio per sentire meglio, ma mentre rispondeva ad alta voce, con gli occhi vivaci non cessava di guardare Columba. Ah, gli occhi di lei eran rossi, all’ombra del fazzoletto coperto di fiori: non erano occhi da sposa felice, quelli! Anche a lui pareva di aver dimenticato qualche cosa, lassù nel villaggio, e ne provava inquietudine.

La comitiva scese un tratto della valle, poi riprese la salita su verso l’altipiano. I giovani cantavano, guidati dal marito di Banna, e la sorella dello sposo, rigida e alta sulla sua cavalla bianca, sembrava un’amazzone pronta ad attraversare pianure e montagne, calma nell’ora del tripudio, calma nell’ora del pericolo.

Le macchie di alaterno e di ginepro fiorito, i gigli selvatici e le peonie che crescevano all’ombra delle roccie come in un giardino abbandonato, profumavano l’aria.

La comitiva seguiva la stessa strada un giorno percorsa dalle famiglie nemiche che andavano giurar pace nella chiesetta dell’altipiano: ed era appunto intenzione dello sposo di fermarsi lassù per fare uno spuntino.

Il nonno raccontava, stendendo la mano in avanti: — Ecco, qui sbucò fuori quel matto di Innassiu Arras, e si mise accanto al vescovo.... Uomo buono, quel vescovo, ma la sua fetta di pazzia ce l’aveva anche lui nelle sua testa; era un uomo che quel che voleva voleva. Così non si venne a nessun accordo, agnelli miei: il prefetto invece era un uomo furbo, palla che gli trapassi il fegato; la sua intenzione io la capii subito, sì,