Pagina:Deledda - Colombi e sparvieri, Milano, 1912.djvu/291

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Ma dopo un momento d’esitazione sollevò il capo con un gesto energico.

— Eppure, vedi, io sono stupidamente felice, Jorgj, capisci, io non sono più solo!

Nessuno più di Jorgj poteva capire questa gioia, ma quasi per un puerile desiderio di fargli dispetto disse:

— Lei non era solo, dottore: non c’era la donna, che lo amava?

— La donna? Al diavolo! Essa mi ama oggi, chissà perchè; forse per ignoranza, forse per interesse, ma mi vorrà bene domani? E sopratutto le vorrò bene io, domani? Non mi stancherò, non la caccerò via? Ecco perchè volevo darle marito, per non sposarla e non legarla a me come il randello alla vite; utile oggi, dannoso domani. Ma il figlio è altra cosa, ottimo amico; è parte di noi stessi; è il nostro seme. Egli potrà anche abbandonarmi e dimenticarmi, un giorno; io sarò sempre suo padre; io non sarò più solo anche se lui sarà all’altro capo del mondo: non sarò solo perchè avrò con me il mio amore per lui. Che c’entra la compagnia materiale, la convivenza, i vincoli sociali? Non c’entrano per nulla. La legge è qui; i vincoli son qui, la compagnia è qui!

Egli si dava forti pugni sul petto: Jorgj approvava e la lettera azzurra si scaldava sul suo cuore palpitante di quell’amore che appunto non ha bisogno di contatto e che varca il tempo e gli spazi.

— Quest’amore può nutrirsi anche per creature non unite a noi da vincoli di sangue, — osservò timidamente, — perchè, del resto, non siamo già noi tutti fratelli?

— Vecchie parole, mio caro, fruste e rifruste e false prima ancora che fossero inventate. Non esiste che l’amore per noi stessi, ed è questo che