Pagina:Deledda - Colombi e sparvieri, Milano, 1912.djvu/292

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si riflette sui parenti, e specialmente sui figli. Noi li amiamo perchè essi son noi: null’altro. Il dolore, in noi, qualunque forma esso prenda, non è che il terrore della fine, della sparizione di noi stessi o di una parte di noi stessi; ora, un figlio ci salva da questo terrore: egli ci sopravviverà, porterà nella sua corsa attraverso la vita la fiaccola che noi gli abbiamo trasmessa. Ecco perchè noi lo amiamo, ecco perchè non sentiamo più intorno a noi la solitudine, cioè la morte, la fine.

— Eppure ci son di quelli che amano senza speranza di veder proseguita la loro esistenza. Le dico di sì! Se il dolore in ogni sua forma, com’ella dice, è il terrore della fine, cioè della morte, l’amore, in ogni sua manifestazione, è il segno stesso della vita. Noi amiamo e vogliamo essere amati per provare a noi stessi che siamo vivi. Sì, avviene così in tutti, anche in quelli che come me son già sepolti....

— Tu risorgerai. — disse il dottore alzandosi e troncando il colloquio che per Jorgj, al solito, volgeva al sentimentale. — Chi parla come te ha ancora la fiaccola in mano; l’importante è di non lasciarla spegnere. Buona sera.

Rimasto solo Jorgj aprì la lettera attento a non far volar via neanche un pezzetto della busta: la luce moriva nella stamberga, ma a lui sembrava che le parole scritte sul foglietto azzurro scintillassero come stelle sul cielo della sera.

Un tremito lo agitava tutto e si comunicava al foglietto. Ah, ciò che ella gli scriveva era così dolce, così ardente che gli dava un’ebbrezza vertiginosa. Gli pareva d’esser ad un tratto salito fino alle altezze del sole e di dominare l’infinito, pronto però a precipitare di nuovo nell’abisso.