Pagina:Eneide (Caro).djvu/213

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172 l’eneide. [545-569]

545Qui dentro in chiaro lume; e la sua voce
Con quest’orecchi udii. Rimanti adunque
Di più dolerti; e con le tue querele
Nè te nè me più conturbare. Italia
Non a mia voglia io seguo. E più non disse.
     550Ella, mentre dicea, crucciata e torva
Lo rimirava, e volgea gli occhi intorno
Senza far motto. Alfin, da sdegno vinta
Così proruppe: Tu, perfido, tu
Sei di Venere nato? Tu del sangue
555Di Dardano? Non già; chè l’aspre rupi
Ti produsser di Caucaso, e l’Ircane
Tigri ti fur nutrici. A che tacere?
Il simular che giova? E che di meglio
Ne ritrarrei? Forse ch’a’ miei lamenti
560Ha mai questo crudel tratto un sospiro,
O gittata una lagrima, o pur mostro
Atto o segno d’amore, o di pietade?
Di che prima mi dolgo? di che poi?
Ah! che nè Giuno omai, nè Giove stesso
565Cura di noi: nè con giust’occhi mira
Più l’opre nostre. Ov’è qua giù più fede?
E chi più la mantiene? Era costui
Dianzi nel lito mio naufrago errante,
Mendico. Io l’ho raccolto, io gli ho ridotti


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