Pagina:Gogol - Taras Bul'ba, traduzione di Nicola Festa, Mondadori, Milano, 1932.djvu/129

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TARAS BUL'BA

ceva, e intanto tremolava tutta, la nota argentina della sua voce. — Dio solo può ricompensarti; non io povera donna...

Abbassò gli occhi; a guisa di due bellissimi semicerchi di neve si distesero su di essi le palpebre orlate di ciglia lunghe come frecce; si chinò tutto il suo volto meraviglioso, e un tenue rossore si diffuse su di esso. A ciò neppure una parola seppe dire Andrea; egli avrebbe voluto esprimere tutto quello che aveva nell’anima, dirlo con tutto il calore con cui lo sentiva nell’anima, — e non poteva! Sentiva qualche cosa che gli sbarrava le labbra; mancava la voce alla parola; sentiva che non era da lui, educato in collegio e in una vita guerresca e nomade, il rispondere a un discorso siffatto, e s’indignava di essere nato cosacco.

Frattanto entrò nella stanza la tartara, che già s’era data premura di tagliare a fette il pane portato dal cavaliere, e portandolo in un piatto d’oro lo mise davanti alla sua padroncina. La bella la guardò, guardò il pane, e poi girò gli occhi verso Andrea — e quante cose erano in quegli occhi! Quello sguardo commosso, che la faceva apparire affranta e incapace di esprimere i sentimenti da cui era avvolta, penetrò nell’anima di Andrea meglio di qualsiasi discorso; parve che lo liberasse da ogni imbarazzo. I moti


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