Pagina:Gogol - Taras Bul'ba, traduzione di Nicola Festa, Mondadori, Milano, 1932.djvu/165

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TARAS BUL'BA

si mostrarono ancora una volta i Ljachi, coi mantelli ormai laceri. Su molti costosi caffettani si vedeva del sangue rappreso, e coperti di polvere i begli elmi di rame.

— Che? avete fasciato le ferite? — gridarono di sotto i Saporogini.

— Vi accomodo io! — gridò ugualmente dall’alto il colonnello corpulento, mostrando una corda; e tuttavia non cessavano di minacciare i polverosi ed estenuati cavalieri, e tutti sempre piú infocati, si attaccavano con parole ardite da ambe le parti.

Da ultimo si ritirarono tutti. Chi si sdraiò per riposarsi, sentendosi stanco dal combattere; chi spargeva di terra le sue ferite, e si faceva delle bende strappando fazzoletti e panni costosi tolti al nemico ucciso. Altri, però, che erano piú freschi e vivaci, cominciarono ad avere cura dei morti e render loro gli ultimi onori: con le spade, con le lance scavavano le fosse; nei berretti, nei grembi portavano via la terra; deponevano con tutti gli onori i corpi dei cosacchi e li cospargevano di terra fresca, affinché non riuscisse ai corvi e alle aquile rapaci di beccar loro gli occhi. Non cosí trattavano i corpi dei Ljachi: li legavano, come capitava, a decine, alle code di cavalli indomiti, li lanciavano a correre per tutto il campo, e poi a lungo


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