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scontra varie volte nella poesia del Sanfelice. Mentre si cammina nell’azzurro fra le stelle o fra i laberinti odorosi d’un giardino incantato, una parola, una similitudine, un verso, pungono e fanno arrossire. E questo è strano in un poeta che sa raggiungere le alte cime dell’idealità e regnarvi anche a costo di avvolgersi di nubi. Si direbbe che sdegna di reggersi a mezz’aria. Ma poi quell’altezza di quando in quando gli dà le vertigini, l’aria troppo fina s’infiamma e lo arde, allora scende a precipizio e ci sveglia sulla terra rudemente, non senza una punta di monelleria.

Il sonetto «Cassiodoro» è però fra gli altri un quadretto storico d’un’aristocratica e severa classicità:

Nel cortile del chiostro è somma pace;
odi sol la fontana; un frate accanto,
cui fluisce canizie e il cuor non tace,
fisa nell’acqua il memore occhio santo.

È Cassiodoro, la latina face
tra le gotiche nebbie e ’l nostro pianto;
il libro di Boezio in man gli giace,
vedovo a lui di suo placido incanto.

Ed ecco uscir due lieti fraticelli:
— Altri volumi ritrovammo, o padre,
che sepolti giacean, fiori di Roma.

— Serbateli! Alleluja! È vivo in quelli
il nome e la virtù della gran madre
pei dì futuri. — E fier mosse la chioma.

Non sono molti i giovani che si trovino nella mente, come il Sanfelice, una solida coltura capace di alimentare sostanziosamente la vena poetica del loro ingegno, di colorirla delle tinte più fosche e più ridenti della storia e della favola, di profumarla di