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tere, per esempio, che, per quanto avesse una base più nobile, la riluttanza in Inghilterra di accettare la coscrizione derivava, alla lunga, dall’ideologia. Noi della minoranza che la volevamo, avevamo il senso di batterci con delle ombre — ma ombre forti, Signori, — ombre fortissime — sostenute da secoli di persuasione profonda, da convinzioni che una volta forse erano fondate nella realtà, ma oggi non lo erano più. Oggi era l’ideologia che avevamo innanzi, e dovevamo batterla con l’idealità — la teoria morta con lo spirito vivo. Ma ci voleva l’intuito il vero intuito — per distinguere. E le donne hanno aiutato in questa lotta, non solo parlando, e alcune scrivendo, ma facendo pesare sui renitenti tutto quel terribile peso dello scherno, dell’ostracismo sociale — arma che la donna, se vuole, può così tremendamente adoperare. Mi scrisse una donna inglese nel secondo anno della guerra: «In molte case non sono più ricevuti uomini che non vestono il Khaki» — la divisa — e bastava seguire il nostro diffusissimo periodico comico, il Punch, per vedere i mille modi nei quali la donna, nei tranvai, nei caffè, dovunque, sapeva pungere e spronare, anche crudelmente talvolta, questi sol sospettati renitenti. E leggendo l’inverno scorso il libro di Raffaele Barbiera sui «Salotti italiani del Risorgimento», ero colpita, Signori, da qualcosa di simile. Dallo stesso spirito magari di eccesso sano, vivificatore, reintegrante. Il Barbiera parlava della Contessa Clara Maffei e di un certo patriota italiano ch’essa manteneva all’estero nell’interesse della propaganda. Egli era stato colpevole, pare, di qualche debolezza, di qualche transazione; e la Contessa Clara scriveva senz’altro a un suo intimo: «Quell’uomo è morto per noi». Ho letto il passo sorridendo ed apprezzandolo fin in fondo, perchè lo