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FORBICI 185

pietà le foglie scure, striate di verde chiaro, il bottone dall’aereo stelo, la picciola vita innocente che, svelta dal suo natio nido di musco a piè di un castagno, posta in quella innaturale dimora, era per donare un fiore ai suoi tormentatori. Il signor Marcello aveva molto amato e coltivato i fiori, se n’era sentito riamare quando tergeva loro le foglie polverose o li dissetava coll’acqua della Riderella, fatta intepidire al sole. La pianticella martoriata, che lo ricreava col suo bel verde cupo, gli era più affettuosa di Lelia che teneva per sè tanta parte dell’anima propria, che difendeva così gelosamente la propria indipendenza morale. Avrebbe volontieri baciata la piccola vita se non se ne fosse vergognato come di un sentimentalismo ridicolo.

Un lungo rombo sordo di tuono dalla Priaforà, stata minacciosa tutto il dì, gli ruppe il fantasticare. Gli venne in mente che la grande invetriata del salone era aperta. Per non disturbare Giovanni che stava pranzando, andò egli stesso a chiudere. Fece il giro del piano terreno, chiuse dappertutto, fedele alla sua abitudine di servirsi dei domestici il meno possibile, e ritornò nel salone. Si faceva notte rapidamente, quasi un’ora prima del tempo. Un lampo arse, sparì; da capo il fragor sordo del tuono fece tremare i vetri. Entrò Giovanni, per chiudere. Vide il padrone, al chiarore dei lampi, gli domandò se desiderasse lume. Il padrone non voleva lume, lo mandò a chiudere le finestre del piano superiore, si appressò all’invetriata per guardare le tenebre sferzate dai lampi che gli battevano e ribattevano in faccia, silenziosi, da Val d’Astico. Gli suonava sopra il capo la tumultuaria difesa contro il temporale, voci vibrate, passi correnti, colpi d’imposte. Le grandi scogliere tragiche del Barco balenavano livide, scomparivano. Balenavano, scomparivano i pioppi lungo la Riderella, rigidi nell’aria senza vento, come avamposti di un corpo