O mio caro e doloroso amico. La tua dei 18. mi sconsola per-
ch’io m’accorgo che tu sei caduto in quella stessa malattia
d’animo che mi afflisse questi mesi passati, e dalla quale non
ch’io sia veramente risorto, ma tuttavia conosco e sento che si
può risorgere. E le cagioni erano quelle stesse che ora produ-
cono in te il medesimo effetto: debolezza somma di tutto il corpo
e segnatamente dei nervi, e totale uniformità, disoccupazione e
solitudine forzata, e nullità di tutta la vita. Le quali cagioni ope-
ravano ch’io non credessi ma sentissi la vanità e noia delle cose,
e disperassi affatto del mondo e di me stesso. Ma se bene anche
oggi io mi sento il cuore come uno stecco o uno spino, contut-
tociò sono migliorato in questo ch’io giudico risolutamente di
poter guarire, e che il mio travaglio deriva più dal sentimento
dell’infelicità mia particolare, che dalla certezza dell’infelicità
universale e necessaria. Io credo che nessun uomo al mondo in
nessuna congiuntura debba mai disperare il ritorno delle illu-
sioni, perchè queste non sono opera dell’arte o della ragione,
ma della natura, la quale expellas furca, tamen usque recurret, Et
mala perrwnpet furtim fastidia victrix} Che farò, mio povero
amico, per te, o che posso far io? Tramutare il mondo? ma nean-
che consolarti? Se non altro posso amarti, e questo infinitamente,
come fo. Io ritorno fanciullo, e considero che l’amore sia la più
bella cosa della terra, e mi pasco di vane immagini. Che cosa
è barbarie se non quella condizione dove la natura non ha più
forza negli uomini? Io non tengo le illusioni per mere vanità,
ma per cose in certo modo sostanziali, giacché non sono capricci
particolari di questo o di quello, ma naturali e ingenite essen-
zialmente in ciascheduno; e compongono tutta la nostra vita.
Come penseremo di traviare seguendo la natura? E perchè
vogliamo piuttosto ribellarci a costei che ce le ha date, e ha voluto
che vivessimo di queste, come vivono tutti gli altri animali, anzi