Pagina:Lorenzo de' Medici - Opere, vol.1, Laterza, 1913.djvu/102

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96 ii - comento sopra alcuni de’ suoi sonetti

e laudarla; le quali laudi, sendo portate alla imagin sua che è nel mio cuore, la fanno parere assai piú bella e piú piatosa; ché cosí pare al pensier mio, che non vede alcuna cosa se non questa imagine. E, perché disopra abbiamo detto gli occhi veder il cuore e le cose che sono in lui, le quali sono invisibili, al presente si dice che il pensiero, il quale non ha potenza di vedere, mira la imagine della donna mia. E, per solver l’una e l’altra oscuritá, bisogna intender dove si dice «occhi e vedere», «pensieri ed imaginare»; perché gli occhi, gli orecchi e la lingua ed ogni senso che s’attribuisce al cuore, non sono altro che pensieri, per mezzo de’ quali il cuore, cioè la mente nostra, imagina ed opera, come il corpo per mezzo de’ sensi. E però tutte le altre operazioni corporali, come è parlare e sentire, che fa quella imagine, si debbono referire a imaginazioni. E, cosí intendendo, si verifica quello abbiamo detto, che, sentendoci quella imagine laudare, si fa piú bella e piatosa. Perché quanto la imaginazione è piú forte, piú gli pare vedere quello che allora imagina, ed imaginando la donna mia piatosa e bella, pare necessario che quanto piú la imagina, cosí piú diventi bella e piatosa nel pensiero. Da questa tale imaginazione di tanta bellezza e dolcezza nasce un desiderio ardentissimo e nuovo nella mente di veder la donna mia viva e vera. Né dice «disio nuovo», perché questo sia nel cuore mio il primo desiderio che avessi mai di vedere la donna mia, ma dice nuovo a quegli altri pensieri, quasi rinato allora di nuovo. Questo nuovo disire adunque mi muove a vedere la donna mia viva e vera, perché il parlare, udire e spirare sono ufficio d’animale vivo e non di cosa che sia imaginata. Con questo desiderio adunque torno a vedere li lucenti e dolci raggi degli occhi della donna mia; e, dicendo «torno», mostro il desiderio non essere nuovo, cioè il primo che avessi mai di vederla; perché tornare a vederla, presuppone altre volte essere ito per vederla. E, dicendo «raggi e lucenti e dolci», si mostra la bellezza e pietá che prima era in quella imagine, la quale per similitudine del vero mi mosse a vedere quella bellissima cosa, della quale ella era un dolcissimo esemplo. Notasi nel presente sonetto tre pensieri e