Pagina:Morselli - L'uccisione pietosa (L'eutanasia), Torino, Bocca, 1928.djvu/158

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nina, ecc., ecc. (qualcuno ha anche pensato alla flagellazione!). Per un buon numero di casi forse l’accusa è vera o, almeno, ha parvenza di verità. Quando un paralitico, un tabetico, un senile in marasma, un apoplettico, sono agli estremi, e i parenti, fra le lagrime ci chiedono di prolungare quella agonia, noi difficilmente ce ne schermiamo, e, colle migliori intenzioni di fare opera doverosa, ricorriamo alla siringa del Pravaz, senza altro effetto che di provocare un sussulto o un gemito di più nel moribondo. Il fatto sta che nessun olio canforato, nessuna essenza di muschio, nessun senapismo o centigramma di stricnina, saprebbe arrestare il processo morboso nella sua ineluttabile discesa verso la fine: noi riusciamo appena a suscitare qualche reflesso di difesa nell’incosciente o assopito malato; fors’anco (ed il pensiero tremendo mi ha spesso conturbato mentre compievo quell’ufficio) noi riportiamo il dolore entro la soglia di una coscienza che stava allontanandosi e perdendo sè stessa. Facciamo noi con ciò opera utile alla vita che si sta spegnendo? E sopratutto facciamo opera umana, ossia morale?

Confesso che in ciò io vado d’accordo con Maeterlinck; sono fra coloro che raccomandano ai loro parenti e famigliari di non chiedere al medico che tenti quel falso, forse doloroso fermo sulla vita, e inutile quando essa starà per fuggire dal corpo. Per mio conto, vorrei chiudere, se sarà possibile, gli occhi