Pagina:Oriani - Vortice, Bari, Laterza, 1917.djvu/81

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menica. I soliti operai non trascinavano su per le ripe, col viso adusto, i calzoni rimboccati fin sopra il ginocchio, ansando e vociando, le carriole cariche di sabbia sgocciolante. Non passavano carrette: i contadini allegri ritornavano dalla città ai campi, dopo la messa; piccoli scolari vagabondavano nell’ozio e nella incertezza del chiasso, col quale stordirsi. Infatti le loro scaramuccie accadevano sempre nel pomeriggio.

Di qua e di là del fiume i campi si stendevano sotto al sole, in una gioia verde, lampeggiante di sorrisi nel tremolio delle foglie, mentre gli uccelli festanti in quel mese degli amori si inseguivano per l’aria rapidi e bruni, o s’arrestavano talvolta sulla cima flessibile di una fronda quasi ad ammirare l’incantevole mattino.

Egli solo camminava cupamente preoccupato.

Lungi, dinanzi ai suoi occhi, le prime vette dell’Appennino sfumavano il proprio verde sul ceruleo dell’aria, entro una leggerezza di vapore trasparente. Alla prima svolta, fra mucchi di ghiaia e di sabbia, si fermò a guardare il cimitero dei cavalli: era un lembo di terra sommossa, a picco sul fiume, brulla e triste; dirimpetto biancheggiava silenziosa una pila da riso, che il padrone milionario aveva per capriccio chiusa da gran tempo, e le sue bocche da acqua, vuote ed aride, rimanevano indarno inclinate sul fiume dentro un’ombra, che rendeva anche più cupa la loro tenebrosa profondità.

Un ragazzo in bicicletta gli passò rasente a volo.

Egli lo seguì macchinalmente cogli occhi, e lo perdette in cima alla salita, dalla quale sparve strisciando come una rondine. Non sapeva ancora dove