Pagina:Parabosco, Girolamo – Novellieri minori del Cinquecento, 1912 – BEIC 1887777.djvu/439

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alcuna, del mio istesso padre prigioniera mi festi, e questo misero corpo, che fu sempre dilicatamente allevato e d’albergare usato in morbide e ornatissime camere, volesti, empiamente crudele, che fusse in profondissima torre rinchiuso, rappresentante con la sua oscuritá le ombre infernali, ove furono queste carni molestate piú volte e da puzzolenti animali punte. E fosse che, doppo tanti mali, sazia mi ti mostrasti, quando nell’error presente mi facesti sventurata cadere, ond’io in preda del furore paterno, non giá di strano nimico, ne venissi. A te, crudo padre, porgo queste parole; le tue orecchie voglio che tocchino; la tua severa rigidezza voglio che rompano: percioché, se negli inimici le altrui miserie per umanitá mettono compassione, a te, padre, orrende e terribili le afflizioni mie deggiono dimostrarsi; perché, essendo io parte di te, gran maraviglia deve essere se non le senti. E, se non pieghi l’indurato animo alla strema condizione mia come padre, e non ti vuoi ricordare ch’io sia tua carne, muoviti come nimico, e naturai pietá ti stringa delle altrui sciagure il core. — Cotali erano le parole della figliuola del re, che essa di sospiri e di pianto mescolate esprimeva; quando il vecchio padre, giú per le gote le lagrime distillando, di cui gli occhi pregni teneva, le quali tenera pietá avea fatte venire, per dolore che gli premeva l’animo, dal suo parlare fu vinto. Onde egli, per compassione punto dalle disaventure della figliuola e dalla forza del parlar persuaso, quantunque il suo fosse gravissimo eccesso, tutta la colpa, prima stimata di lei, in se stesso tacitamente rivolse. E cosi la paterna pietá spense quella strabocchevole ira, mansuetamente del fallo della figliuola passandosi. Ma, perché l’errore commesso dalla donzella era sempre stato occultissimo, ed ella poscia di continuo in una camera tenuta rinchiusa, doppo lo spazio di pochi giorni, facendo a sé chiamare il re un nobilissimo e ricchissimo cavaliere de’ suoi, nominato Mandulco, il quale da’ primi anni insino a quel tempo alla corte e a’ servigi del re era fedelissimamente stato, facendoli esso dimostrazioni amorevoli, coni’è di volerlo affettuosamente della sua lunga servitú guiderdonare, gli offerse la figliuola in isposa, grande avere e stato in dotte promettendogli. Di che molto lieto il barone rimaso, e ciò ad onore recandosi, in grandissima grazia e favore se lo reputò: onde furono le nozze magnifiche fitte, e solennemente le sponsalizie celebrate. Venendo poscia la giovane al debito termine del suo parto, un figliuolo ne nacque, il quale troppo bene credette Mandulco avere egli generato. Ma,

G. Pakabosco, Opere vane.

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