Pagina:Pascoli - Antico sempre nuovo.djvu/115

Da Wikisource.

la poesia lirica in roma 101

berto grammatico greco, probabilmente; il quale soleva chiamare «amore di Pan» per cavillationem nominis, un altro liberto e grammatico; Lutatius Daphnis.

IV.

Intorno all’anno 690 fioriva in Roma un giocondo crocchio di amici che amavano la poesia; e ciò che era alquanto strano, non erano liberti e non erano grammatici; se non forse uno solo tra loro, Valerio Catone, della Gallia Cisalpina. Di lui in vero si diceva dagli altri che fosse un liberto; esso affermava di essere «ingenuo» ma spogliato ai tempi di Sulla, meno d’un venti anni prima, del suo patrimonio e, in certo modo, del suo stato civile. Egli insegnava, ma a giovani di buona nascita, tra cui viveva alla pari. Era un critico esimio: ricordava Zenodoto per la severità un poco arbitraria del giudizio, Cratete per l’amarezza nella polemica. Sapendo assai bene il greco e ammirando la poesia hellenica, specialmente quella elegante e artificiosa degli Alessandrini, censurava nei poeti Romani la trascuratezza specialmente metrica. Lucilio, per esempio, grande ingegno senza dubbio, non sapeva fare i versi. Catone volgeva la mente de’ suoi amici più che discepoli, ai poemi di Apollonio Rhodio, di Euphorione, di Callimacho. I quali sono dell’albero, se si può dire, non il fiore, ma il frutto: frutto maturo e mézzo che è per cadere e lasciare il seme alla terra1. Sin d’allora, forse, era chiamato la Siren

  1. Pag. 101 M. Furius Bibaculus — 106 Memmius.