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latina; egli saziava il petto dei giovani col canto e li rimandava più dotti. O forse a qualche vecchio settatore del suo; omonimo, pareva pericolosa e mortale la sua voce lusinghiera? Può essere. Erano di quel crocchio altri transpadani come Valerio Catone: Cornelio Nepote, dotto e grave, che conosceva personaggi importanti, Furio Bibaculo, un buontempone di molto ingegno, Quintilio Varo, Cornificio. Ne faceva parte, di Romani proprio, C. Licinio Macro Calvo, non più che giovinetto (era nato nel 672), natura assai complessa, in cui forse la tragica morte del padre, avvenuta nel 688, poneva un’amarezza che col fondo allegro di essa doveva produrre e l’orazione elegante e violenta, sottile e feroce, e la poesia ora dolce come di Sappho ora velenosa come di Hipponacte. Ne faceva parte L. Manlio Torquato, un po’ orgoglioso della sua nascita, un po’ sdegnoso dei peregrini; ma molto studioso della storia, gran lettore e recitatore di poeti1. Vi si lasciava vedere, non forse proprio in quest’anno 690 ma poco dopo, un giovinetto, savio e arguto nel tempo stesso, Asinio Pollione, che si preparava a essere quello che fu, un grand’uomo. Non mancavano i poetastri, zimbello dei compagni, nè i giovanotti che frequentavano la compagnia per passare un’ora allegra, e amavano quelle persone, sebbene, non perchè dotte. Le quali erano degnate qualche volta della presenza del più famoso oratore di Roma, Hortensio Ortalo, che parlava bene ma troppo, e verseggiava e troppo e male. L’altro grande oratore

  1. Pag. 54 XX, specialmente nota al v. 8. Cicero pro Sulla viii 24.