Pagina:Petruccelli - La rivoluzione di Napoli nel 1848, Genova, Moretti, 1850.djvu/102

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la paura non gli arrestassero il braccio. Allora si abbandona alla provvidenza. E tormentato dalla necessità di uscire da una situazione, in cui sente morirsi, spinto da una confidenza fatale in Dio, ciò che altri farebbe per coraggio e per risoluzione, egli fa per fede ostinata nelle madonne di tutti i colori, e nei santi di tutte le dimensioni. La sua rovina era inevitabile: Dio solo poteva salvarlo: provocò un miracolo. La contemporaneità dei colpi di Stato di Parigi, Vienna e Napoli, benchè avessero spirito ed esito diverso, non è forse una coincidenza fortuita. All’avvenire lo schiarimento: noi contentiamoci di constatarne l’esistenza e manifestarne il dubbio. Quel che è certo, a Napoli si era da un pezzo travagliato per ordire l’attentato; e qualcuno di coloro, che poscia palesaronsi come ministri, sicuramente non vi era straniero. Da otto giorni poi un’attività insolita regnava nella corte, per ordinario sì mesta e solitaria, nella corte che si era divisa affatto dal paese ed isolata come un lazzaretto. Il popolo era tormentato da un’ansietà inesplicabile: qualche cosa di minaccevole e di oscuro si sentiva alitare nell’aria. Militari d’ogni grado, figure sinistre d’ogni maniera brulicavano nel castello: aspetti ignoti soffiavano nel popolo progetti terribili, partiti estremi. I preti, i frati del Carmine, il famoso Don Placido Backer, insinuavano nella plebe strani consigli, e proscrivevano le teste di certi malvagi, i quali tentavano scompigliare l’ordine che Iddio creava assoggettando l’uomo all’autorità del prete e del re, imagini di Dio. Dicevano che bisognava resistere in quel martirio morale fino alla morte, distruggere, ad alcuno non perdonare. Nei quartieri dei soldati fedeli,