Pagina:Petruccelli - La rivoluzione di Napoli nel 1848, Genova, Moretti, 1850.djvu/71

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nata, non ebbe attribuirsi a noi radicali che domandavamo si passasse sopra ad ogni altra quistione di forma, ma al partito moderato e costituzionale il quale nudriva ancora fede in quella povera mistificazione che chiamasi Carta, che credeva ancora il re un essere correggibile e disciplinabile. La loro speranza era uno sconoscere il principio motore della rivoluzione, era obliare che la costituzione era stata strappata dal pugno dei principi come una preda dagli artigli di un’aquila. I siri d’Italia non avevano ceduto, erano stati vinti dopo avere lungamente lottato. E noi trascurammo la vittoria! La reazione di oggi è frutto della spensierata fiducia di allora: eppure noi, disgraziati, illusi dal cuore, non faremo senno giammai. Sia comunque, l’anima ci tradì: ci ubbriacammo di gaudio e perdemmo di vista le manovre dei principi il cui odio giammai non riposa. Essi ci lasciarono rappresentare la parte di Sardanapalo nelle orgie, e rinchiusi nei loro pensieri, rivenuti dallo sbalordimento, cominciarono a veder netto nella scambievole situazione. La battaglia ci aveva dato tutto; col trattato di pace, con le costituzioni dovevamo tutto perdere. — Bisognava mettere l’Italia alla croce di uno statuto angusto come i forni di Monza, attaccare un popolo vivo ed attivo ad un cadavere. Bisognava galvanizzare un’aristocrazia morta sotto i colpi della rivoluzione francese, atterrirla se così facea d’uopo col fantasma del comunismo, allettarla di nuovi privilegi, per dividere in due interessi opposti la nazione. Bisognava mettere una barriera tra il cittadino e il soldato: e sopra tutto temporeggiare, per ispossare l’energia e l’entusiasmo degli spiriti. - In effetti per non parlar che di Napoli, undici giorni