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I


La parola «umorismo»


Alessandro D’Ancona, in quel suo notissimo studio su Cecco Angiolieri da Siena,1 dopo aver notato quanto vi sia di burlesco in questo nostro poeta del sec. XIII, osserva: «Ma per noi l’Angiolieri non è soltanto un burlesco: bensì anche, e più propriamente, un umorista. E qui i camarlinghi della favella ci faccian pure il viso dell’arme, ma non pretendano di dire che in italiano bisogna rassegnarsi a non dir la cosa, perchè non abbiam la parola».

E, accortamente, in una nota a pie’ di pagina,2 soggiunge: «È curioso però che il traduttore francese di una dissertazione tedesca sull’Humour, inserita nel Recueil de piéces intéressantes, concernant les antiquités, les beaux-artes, les belles-lettres et la philosophie, traduites de differéntes langues, citando il Riedel, Theor. d. Schöne Kunsten, I. artic. Laune, sostenga che sebbene gli Inglesi, ed il Congreve in particolare, rivendichino per sè i vocaboli humour e humourist «il est néammoins certain qu’ ils viennent de l’italien».

E quindi il D’Ancona riprende: «Del resto, poi, la nostra lingua ha umore per fantasia, capriccio, e umorista per fantastico: e gli umori dell’animo e del cer-


  1. In Studi di Critica e Storia Letteraria (Bologna, Zanichelli ed., 1880).
  2. pag. 179.