Pagina:Pirandello - Uno nessuno e centomila, Milano, Mondadori, 1936.djvu/209

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qualcuno anche dalla muffa, appesi qua e là senz’ordine, sopra armadii e scansìe stinte e tarlate.

In fondo alla sala s’aprivano due finestroni, i cui vetri, d’una tristezza infinita sulla vanità del cielo velato, erano scossi continuamente dal vento che s’era levato d’improvviso, fortissimo: il terribile vento di Richieri che mette l’angoscia in tutte le case.

Pareva a momenti che quei vetri dovessero cedere alla furia urlante del libeccio. Tutto il colloquio tra me e Monsignore ebbe l’accompagnamento sinistro di sibili acuti e veementi, di cupi, lunghi mugolìi che, distraendomi spesso dalle parole di Monsignore, mi fecero sentire con un indefinibile sbigottimento, come non l’avevo sentito mai, il rammarico della vanità del tempo e della vita.

Ricordo che da uno di quei finestroni si scorgeva il terrazzino d’una vecchia casa dirimpetto. Su quel terrazzino apparve a un tratto un uomo, che doveva essere scappato dal letto con la folle idea di provare la voluttà del volo.

Esposto lì al vento furioso, si faceva svolazzare attorno al corpo magro, d’una magrezza che incuteva ribrezzo, la coperta del letto: una coperta di lana rossa, appesa e sorretta con le due braccia in croce, sulle spalle. E rideva, rideva con un lustro di lagrime negli occhi spiritati, mentre gli volavano di qua e di là, lingueggiando come fiamme, le lunghe ciocche dei capelli rossicci.

Quell’apparizione mi stupì tanto, che a un certo punto non potei più tenermi di farne cenno a Mon-