Pagina:Pirandello - Uno nessuno e centomila, Milano, Mondadori, 1936.djvu/32

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ceva a un giuoco il mio esperimento, a un tratto il mio volto tentò nello specchio uno squallido sorriso.

— Sta’ serio, imbecille! — gli gridai allora. — Non c’è niente da ridere! —

Fu così istantaneo, per la spontaneità della stizza, il cangiamento dell’espressione nella mia immagine, e così subito seguì a questo cambiamento un’attonita apatia in essa, ch’io riuscii a vedere staccato dal mio spirito imperioso il mio corpo, là, davanti a me, nello specchio.

Ah, finalmente! Eccolo là!

Chi era?

Niente era. Nessuno. Un povero corpo mortificato, in attesa che qualcuno se lo prendesse.

Moscarda... — mormorai, dopo un lungo silenzio.

Non si mosse; rimase a guardarmi attonito.

Poteva anche chiamarsi altrimenti.

Era là, come un cane sperduto, senza padrone e senza nome, che uno poteva chiamar Flik, e un altro Flok, a piacere. Non conosceva nulla, nè si conosceva; viveva per vivere, e non sapeva di vivere; gli batteva il cuore, e non lo sapeva; respirava, e non lo sapeva; moveva le pàlpebre, e non se n’accorgeva.

Gli guardai i capelli rossigni; la fronte immobile, dura, pallida; quelle sopracciglia ad accento circonflesso; gli occhi verdastri, quasi forati qua e là nella còrnea da macchioline giallognole; attoniti, senza sguardo; quel naso che pendeva verso destra, ma di bel taglio aquilino; i baffi rossicci che nascondevano la bocca; il mento solido, un po’ rilevato.