Pagina:Salgari - I figli dell'aria.djvu/246

Da Wikisource.
214 capitolo venticinquesimo


— Vi seguiamo, — disse il capitano, dopo essersi fatto dare dal macchinista dei viveri, alcune bottiglie e delle bazzecole che contava di regalare al montanaro.

Tenendosi per mano onde non smarrirsi, si lasciarono condurre. A destra e a manca scorgevano confusamente delle masse oscure che dovevano essere o tende o capanne e che erano avvolte fra un denso fumo che il nebbione impediva di disperdersi.

Dopo trenta o quaranta passi il Tibetano aprì una porta e li introdusse nella sua abitazione, formata da una sola stanza ingombra di pelli, di caldaie di rame, di quarti di jacks quasi gelati e ammassi di vecchi tappeti di feltro che dovevano servire da letto.

Nel mezzo, su quattro sassi, bruciava dell’argol, il quale non è altro che dello sterco di toro indurito, l’unico combustibile usato sull’altipiano e che produce fumo in abbondanza. Un’apertura però, fatta nel tetto, permetteva che bene o male uscisse; ve ne rimaneva tuttavia tanto dentro, che gli aeronauti credettero per un momento di morire asfissiati.

— All’inferno i palazzi tibetani! — esclamò Rokoff, che tossiva fragorosamente. — Questa è una tana da volpi!

— Ci abitueremo presto a questo fumo, — rispose il capitano.

Il capo si era intanto sbarazzato del suo immenso mantello, formato da una intera pelle di jack, che portava col pelo all’infuori, e del suo berrettone di pelle d’orso, che gli nascondeva mezzo volto.

Era il vero tipo del montanaro tibetano, basso di statura, secco, con occhi piccoli, un po’ obliqui come quelli della razza mongola, senza un pelo sul volto e invece con una capigliatura lunga e abbondante, molto ruvida e che portava raccolta in trecce cadenti sulla fronte bassa e depressa e sulle spalle.

Aveva gli zigomi molto più pronunciati dei cinesi, il naso grosso, la bocca larga fornita di denti lunghi e acuti come quelli delle belve, male disposti e sporgenti in modo che gli uscivano dalle labbra. La sua pelle poi scompariva sotto un vero strato di sporcizia. Probabilmente quell’uomo non si era mai lavato dal giorno che era venuto al mondo.

Prima d’accostarsi agli aeronauti, fece un goffo inchino alzando poi i pollici delle mani fino all’altezza della fronte e cacciò fuori dalle labbra una lingua lunga quasi mezzo piede, che lasciò penzolare per alcuni istanti.

— Per le steppe del Don! — esclamò Rokoff, guardandolo con stupore e con disgusto. — Sta appiccandosi costui?