Pagina:Sotto il velame.djvu/233

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le rovine e il gran veglio 211

reità; sì che l’ultimo dei rei di malizia, con l’intelletto nero, con la volontà rossa, con l’appetito bianco e giallo, inordinato, insomma, in tutte le potenze dell’anima, non era più reo d’uno spirito magno e d’un parvolo innocente.

La porta dell’inferno era chiusa su tutti, e i piovuti del cielo dominavano oltre Acheronte e nel vestibolo medesimo. Ma il Redentore scrollò col suo ultimo anelito tutto l’inferno e, morto al peccato cioè alla carne, sconquassò la porta, e passò l’Acheronte. D’allora in poi tutti i viventi, che vogliano morire alla morte, possono far quello ch’esso fece: entrar da quella porta e passar l’Acheronte. Ma poichè quell’entrare e quel passare significano morire alla difficoltà o viltà e all’ignoranza originali, e in esse sono incluse tutte le deformità conseguenti al primo peccato, così ogni vivente (s’induce dall’esempio di Dante) può, volendo, prender via per le altre rovine, che sono effetto, come la rottura della porta, della Redenzione medesima, e passar gli altri fiumi che sono la continuazione dell’Acheronte, che sono l’Acheronte con altri nomi. Onde solo dei passatori dell’inferno Caron non lo tragitterà, perchè egli è il barcaiuolo, per così dire, del peccato originale, ossia della seconda morte in genere; e non può egli tragittare chi a questa seconda morte muore, invece di morirne. Gli altri sì, lo tragitteranno, perchè egli il fiume l’ha già passato virtualmente, e non valgono, quindi, contrasti più e dinieghi, quando si sappia ch’egli non lo passò morendo della seconda morte, come l’avrebbe passato se l’avesse tragittato Caron, ma morendo alla seconda morte, come lo passò il Cristo, cioè rinascendo e vivendo.