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210 nell’ingranaggio


La grande lampada che pendeva dal soffitto sopra la scrivania era accesa come il solito e coperta da quell’enorme paralume, pesante di ricami, che diffondeva una luce quieta come filtrata.

Ella si avanzò fino alla entrata dell’alcova e vide una scena molto originale.

Gilda era seduta sulla poltroncina accanto al letto dell’infermo, come la prima sera. Era vestita come di giorno, con un abito scuro, tutto intero, chiuso davanti con una lunga fila di bottoni, dal collo ai piedi, una specie di veste da camera aderente alla persona; un piccolo fisciù di trina, le si annodava negligentemente sul petto. I capelli le scendevano sulle spalle, sulle braccia, in due lunghe trecce mezzo disfatte. La stanchezza le aveva fatto arrovesciare la testa su i guanciali, vicino al viso dell’ammalato. I loro capelli si sfioravano; due mani si tenevano. La fanciulla respirava dolcemente; un soffio leggero usciva dalle sue labbra socchiuse. Giovanni aveva un respiro affannoso, come un rantolo. Nella penombra appariva livido, magrissimo con gli occhi incavati; ma non si vedeva il rossore cupo con cui la febbre gli colorava la sommità delle guance. Dormivano uno accanto all’altro, in una confidenza innocente, in un casto abbandono.

Edvige li guardò a lungo; osservò la correttezza dell’abito di Gilda, tutto abbottonato malgrado il caldo opprimente, e le sue labbra si piegarono a una smorfia beffarda. Questo quadro così eloquente e gentile non la commosse, non la turbò. Non provò gelosia, ma un sentimento cattivo di rancore e di sprezzo. Avrebbe voluto