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cune rischiarate a mala pena da certe finestrine rotonde formanti parte del vecchio insieme architettonico. Ma lo stesso scalone, eternamente umido, tanto che serviva da barometro agli inquilini, si mutava dopo il primo piano in una scaletta a chiocciola, vero precipizio.

La Cristina abitava appunto in cima alla scaletta in una soffitta ridotta a tana per bestie umane.

Essa era come la casa, una decadenza. Un poeta avrebbe potuto fantasticare che erano nate insieme e che insieme deperivano.

Sulla scaletta il tanfo generale mutava carattere.

E se qualcuno ne chiedeva l'origine, le vicine in coro gridavano:

— I gatti della Cristina.... quella vecchiaccia!...

L’avrò sentita a nominare così venti volte prima di averla veduta.

Non era facile vederla; aveva qualcosa di misterioso. Usciva all’alba per recarsi alla prima messa in San Pietro in Gessate, poi si rinchiudeva nella sua soffitta; altre volte stava fuori tutto il giorno: andava a lavorare — così dicevano — da sarta da uomo in certe case lontane — nessuno sapeva precisamente dove.

Lei proteggeva tutti i gatti in genere, specialmente gli abbandonati; ma due erano i suoi prediletti; uno rosso ed uno nero, grassi, lucidi, insolenti.

Non è a dire quante volte i vicini stanchi, attentassero alla vita di quelle due bestie, col bastone, col laccio e col veleno. Ma avevano finito col crederli invulnerabili, talmente i due furbi sfuggivano a tutti i tranelli. E dopo ogni attentato la Cristina appariva più tragica, più minacciosa.