Pagina:Storia della letteratura italiana I.djvu/258

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Indi rimaser lì nel mio cospetto,
Regina coeli cantando sì dolce
Che mai da me non si partì il diletto.

Quella facella è l’angiolo Gabriele, e il Coro è angelico. Angioli e Beati sono penetrati dello stesso spirito, hanno vita comune, se non che negli angioli la virtù è innocenza e la letizia è irreflessa: plenitudine volante tra’ Beati e Dio, che il poeta ha rappresentato in alcuni bei tratti; è un andare e venire nel modo abbandonato e allegro della prima età, tripudianti e folleggianti con una espansione che il poeta chiama arte e gioco:

Qual è quell’angel che con tanto gioco
Guarda negli occhi la nostra regina,
Innamorato sì che par di fuoco?

L’amicizia o comunione delle anime è detta dal poeta sodalizia. I loro moti sono danze, le loro voci sono canti: ma in quell’accordo di voci, in quel turbine di movimenti la personalità scompare; è una musica in cui i diversi suoni si confondono e si perdono in una sola melode. Non ci è differenza di aspetto, ma per dir così una faccia sola. Questa comunanza di vita è il fondo lirico del paradiso, ma è la sua parte fiacca, perchè il poeta, contento a citare le prime parole di canti ecclesiastici, non ha avuta libertà e attività di spirito da creare la lirica del paradiso, rappresentando nel canto i sentimenti e gli affetti del celeste sodalizio. E dove potea giungere, lo mostra la preghiera di San Bernardo, che è un vero Inno alla Vergine, e l’Inno a san Francesco d’Assisi e l’Inno a San Domenico, nella loro semplicità anche un po’ rozza tutto cose e più schietti che i magniloquenti inni moderni.

I canti delle anime sono vuoti di contenuto, voci e non parole, musica e non poesia: è tutto una sola onda di luce, di melodia e di voce, che ti porta seco: