Pagina:Svevo - La coscienza di Zeno, Milano 1930.djvu/532

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dire che mi sentivo molto bene. Avevo fumato poco e non mangiato affatto. Mi sentivo di una leggerezza che da lungo tempo m’era mancata. Non mi dispiaceva affatto di dover ancora camminare. Mi dolevano un poco le gambe, ma mi pareva che avrei potuto reggere fino a Gorizia, tanto era libero e profondo il mio respiro. Scaldatemi le gambe con un buon passo, il camminare infatti non mi pesò. E nel benessere, battendomi il tempo, allegro perchè insolitamente celere, ritornai al mio ottimismo. Minacciavano di qua, minacciavano di là, ma alla guerra non sarebbero giunti. Ed è così che quando giunsi a Gorizia, esitai se non avessi dovuto stabilire una stanza all’albergo nella quale passare la notte e ritornare il giorno appresso a Lucinico per presentare le mie rimostranze al capovilla.

Corsi intanto all’ufficio postale per telefonare ad Augusta. Ma dalla mia villa non si rispose.

L’impiegato, un omino dalla barbetta rada che pareva nella sua piccolezza e rigidezza qualche cosa di ridicolo e d’ostinato — la sola cosa che di lui ricordi — sentendomi bestemmiare furibondo al telefono muto, mi si avvicinò e mi disse:

— È già la quarta volta oggi che Lucinico non risponde.

Quando mi rivolsi a lui, nel suo occhio brillò una grande lieta malizia (sbagliavo! anche quella ricordo ancora!) e quel suo occhio brillante cercò il mio per vedere se proprio ero tanto sorpreso e arrabbiato. Ci vollero un dieci buoni minuti perchè comprendessi. Allora non ci furono dubbii per me. Lucinico si trovava o fra pochi istanti si troverebbe sulla linea del fuoco. Quando intesi perfettamente quell’occhiata eloquente