Pagina:Tragedie (Pellico).djvu/337

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332 erodiade.

Se non di gioja, almen d’alcun conforto,
Di vederti fermai.
Giovanni.                                   Nulla son io
Che il precursor del Giudice del mondo:
E l’annuncio. E dell’anima il lavacro
Come ai popoli intimo, anco ai seduti
In soglio intimo.
Erodiade.                                   Di che rea mi sia
Mal so tel giuro. Alcune volte un mostro
Sembro a me stessa, e i miei delitti cerco,
E — dirtel deggio? — non li trovo, e nome
Darei lor di virtù. Regina a fianco
D’amato re, seder dovea io cieca
Ai perigli del trono? Io que’ perigli
Vidi, e mi ricordai d’esser rampollo
De’ Maccabei; mi ricordai che i vili
Onde il padre d’Erode, ahi! fu sospinto
A spegner la mia stirpe, anco impuniti
Vivevano e d’Aristobulo alla figlia
Insidïavan. Brandir fei le spade,
E le sospinsi, e camminai nel sangue.
Ma regnar puossi oggi altramente? scusa
È l’espettazïon d’un Salvatore
A perpetue rivolte; e chi lo scettro
Insanguinar non osa, infranto il mira.
Giovanni.Volgi gli occhi al passato, e sovverratti
D’un’Erodiade, che lo scettro infranto
Avrebbe pria che camminar nel sangue.
Erodiade.Io? Quando? come?
Giovanni.                                        Non rammenti i giorni
Tuoi d’innocenza e di virtù? Presago
Della rovina di sua stirpe, il sommo
Sacerdote Aristobulo al cordoglio
Mescea dolce sollievo, in te veggendo
Esser religïone inclito frutto
Delle paterne cure sue: profonda
Religïon qual ne’ grand’avi a lungo
Avea prefulso ad Israello avanti.