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il paradiso delle signore

il Mouret e il Bourdoncle erano entrati. Il Bourdoncle asseriva che il manzo era squisito; e il Mignot, sbalordito da quell’affermazione buttata là a faccia fresca, badava a ripetere:

— Ma l’assaggi!

Il Liénard, invece, insisteva sul pesce e diceva con dolcezza:

— Puzza! creda pure che puzza!

Allora il Mouret profuse parole piene di cuore: perché i suoi impiegati stessero bene, avrebbe fatto di tutto: era come un padre per loro; piuttosto che saperli nutriti male, avrebbe preferito di mangiar lui pane solo.

— Vi prometto di pensarci sul serio e di provvedere, — conchiuse alzando la voce per essere sentito da un capo all’altro dell’andito.

L’inchiesta era bell’e finita, e il rumore delle forchette ricominciò. L’Hutin mormorava:

— Già, già! c’è proprio da contarci sopra! Le belle parole non gli mancano; ma le chiacchiere non fanno farina! E intanto ci danno a mangiar suola di scarpe vecchie, e ci scaraventano sul lastrico con un calcio, tal quale come si fa ai cani.

Il solito commesso gli domandò:

— Dite un po’: e il Robineau dunque?...

Ma un grande acciottolío di piatti ne copri la voce. I commessi si cambiavano il piatto da sé, e i due mucchi a destra e sinistra diminuivano. Uno sguattero portava ora grandi vassoi di latta, e l’Hutin esclamò:

— Ci mancava anche questa! ecco lo sformato di riso!

— Qua due soldi di colla! aggiunse il Favier, mentre si serviva.


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