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il paradiso delle signore


La De Boves fece una smorfia di sprezzo.

Quel vendere ad alta voce non lo poteva soffrire; un impiegato che la chiamasse la faceva scappar via subito. La Marty, invece, stupiva di quell’orrore per la ciarlataneria; lei invece era contenta quando le facevano violenza, sguazzando nelle carezze dell’offerta pubblica, tuffando le mani dappertutto, buttando via il tempo in parole inutili.

— Ed ora, riprese a dire — leste a pigliar la stringa!... Non voglio veder piú nulla.

Ma, nel traversare le sete leggiere e i guanti, le mancò il cuore un’altra volta.

Sotto la luce diffusa c’era una mostra a colori vivaci e allegri d’un effetto mirabile. I banchi disposti in simmetria parevano aiuole di fiori, la sala un giardino alla francese, cui sorridesse variegata tutta una flora. Sul legno, nelle scatole aperte, fuor degli scaffali troppo pieni, una fiorita di sete accordava il rosso acceso dei gerani col bianco latteo delle peonie, il giallo aureo dei crisantemi con l’azzurro celeste delle verbene; e piú su, dagli steli metallici, pendevano a ghirlande stoffe lasciate andare, nastri a penzoloni, che si allungavano e si avvinghiavano alle colonne, moltiplicati dagli specchi. Ma sopra ogni altra cosa attraeva la folla una capanna svizzera, fatta tutta di guanti, un capolavoro del Mignot che ci aveva speso due giornate. I guanti neri facevano il pianterreno; poi venivano quelli color paglia, gialli, rossi cupi, messi al posto loro per indicar le finestre, i terrazzi, i tegoli.

— Che desidera la signora? — chiese il Mignot, vedendo la Marty ferma davanti la capanna. — Ecco guanti di Svezia a un franco e settantacinque, prima qualità...


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