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credibili; merci portate via da ragazze che se le andavano a riporre sotto le gonnelle nei gabinetti, posti tra le piante verdi, vicino alla stanza dei liquori; compre che un commesso non diceva forte alla cassa quando vi conduceva una cliente, facendo a mezzo del prezzo col cassiere; perfino delle false rese di roba che dicevano essere stata riportata mentre non era, e se n’intascavano il prezzo, pagato davvero, dalla cassa: senza contare il furto classico, involti che i commessi nascondevan la sera sotto il soprabito e si cingevano alla vita, o anche si attaccavano, le ragazze, lungo le cosce. Da quattordici mesi, per via del Mignot e di altri ch’essi rifiutarono di nominare, alla cassa d’Alberto si faceva una impudente mangeria di cui non si poté sapere precisamente la somma.

La cosa intanto s’era sparsa per le sezioni. Le coscienze inquiete rabbrividivano; anche le piú sicure avevan paura di una ripulita generale.

Alberto era stato chiamato nella stanza degli ispettori: poi era passato il Lhomme, con tutto il sangue alla testa, col collo già stretto dall’apoplessia.

Poi anche la signora Aurelia era stata chiamata, e lei, continuando a tenere alta la fronte, era livida e bolsa come una maschera di cera. Stettero chiusi a lungo, e nessuno seppe bene i particolari: corse voce che la direttrice avesse preso a schiaffi Alberto, sino a fagli rivoltar la testa da un’altra parte, e che quel buon uomo del babbo piangeva, mentre il padrone, senza lasciarsi quella volta commuovere, urlava e bestemmiava che voleva ad ogni costo mandare il colpevole davanti al tribunale.


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