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Pagina:Zola - Il paradiso delle signore - 1936 - Mondadori.pdf/480

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zola

il gran serbatoio quadrato, retto per aria da pilastrini di ferro fuso, aveva lo strano profilo d’un monumento barbaro inalzato lassú dall’orgoglio d’un uomo. Lontano, Parigi rumoreggiava.

Quando Dionisia tornò da quei suoi pensieri che volavano sul Paradiso come su una solitudine, vide che il Deloche le aveva preso la mano. Ma aveva il viso cosí stralunato, che gliela lasciò fra le sue.

— Abbiate pazienza — diceva lui; — oramai è una cosa finita: sarei troppo disgraziato se mi toglieste la vostra amicizia per punirmene... Vi giuro che vi volevo dire un’altra cosa... Sí... volevo mostrarvi che oramai m’ero rassegnato...

Piangeva da capo, e cercava che la voce non gli tremasse tanto.

— Perché io lo so quel che nella vita mi tocca; e la fortuna non mi si muta piú. Botte laggiú, botte a Parigi, botte dappertutto. Son qui da quattr’anni e son sempre l’ultimo della sezione... E questo vi volevo dire; non v’importunerò piú, io; e voi non dovete darvi piú pensiero di me: cercate di essere felice, amate un altro; ci avrò piacere io. Contenta voi, sarò contento anch’io... Sarà quella la mia felicità.

Non poté seguitare. Come per sigillare la promessa, aveva posate le labbra su la mano della giovinetta, e la baciava col bacio umile d’uno schiavo.

Dionisia era commossa e con affetto fraterno, che diminuiva la compassione delle parole, disse soltanto:

— Povero figliuolo!

Ma trasalirono, e si voltarono.


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